La stanza sembra
quella dei giochi di figli qualunque: cavallino a dondolo col
naso consumato, pioggia di palloni arcobaleno, il castello di Harry Potter
compreso di cielo e fulmini. I bambini mi fanno domande curiose. Non
sembrano abbandonati, né infelici. Non sembra che un padre o uno zio gli
abbiano portato via per sempre la purezza e la pace dei sogni. «Mi regali
la tua borsa?» chiede Sonia. «Quando torni?» insiste Claudio.
D'improvviso, dietro il muro, uno strano e lungo lamento, come di un
piccolo leone prigioniero. I bambini non ci badano. Sonia fa i capricci,
si tira i capelli arruffati e vuole «un gelatino». La signora che pensa a
lei e agli altri sparisce in cucina per accontentarla.
Ancora quel
mugolio roco. Forte, fortissimo. Ancora bambini che giocano come se niente
fosse. Come se quella cantilena terribile fosse l'unica colonna sonora di
quella casa. Allora approfitto dell'assenza della signora e apro quella
porta.
E vedo Carlo: ha capelli castani, una tuta di
jeans e un braccio molto più corto dell'altro. Avrà 7 anni: dondola avanti
e indietro come una scimmia carcerata dentro un letto con la ringhiera.
Gli parlo, lo accarezzo. Inutile: l'unica risposta è quel lamento sordo. È
il rumore del dolore che gli ha lacerato il cuore e il cervello: Carlo è
stato abbandonato dai suoi genitori un anno fa perché il suo handicap «era
diventato ingestibile».
Ma quando è arrivato piangeva e
parlava. Oggi dondola soltanto. E ulula. Ci saranno da qualche
parte un padre e una madre veri anche per lui? Forse sì, ma anche se ci
fossero oggi sarebbe molto difficile fargli sapere che Carlo esiste, che
li cerca. Perché Carlo sta in un istituto del Sud, dove molti orfanotrofi
non sono neppure censiti, né conosciuti. Perché Carlo è un numero,
un'ombra zoppa persa dentro la stanza ghiacciata di una casa senza madre.
Adozione: quanto abbiamo abusato di questa parola negli
ultimi anni. Adozione santa, adozione giustiziera, adozione giusta o
ingiusta, adozione tradita. Ma l'adozione nel Duemila,
istituzione santa sulla carta, è oggi più che mai dentro le sabbie mobili.
Nella nebbia, nell'incertezza, nel caos. Forse nella vergogna. Una notizia
per tutte? Al momento non esiste in Italia una banca dati che permetta di
dare informazioni e vita ai bambini che negli orfanotrofi aspettano di
ritornare figli.
E poi non esistono vere anagrafi regionali (a parte
rari casi), niente archivi, scarse e povere indagini che valutino la vera
condizione della famiglia.
Molti errori, dati gonfiati o sgonfiati.
Sicuramente intermittenti, dunque inattendibili. Istituti non censiti,
sconosciuti, desaparecidos. E una bomba: finalmente la legge 149 del 2001
aveva chiesto di chiudere gli istituti entro il 2006 per dare agli orfani
famiglie affidatarie. Era l'approdo, era la speranza per migliaia di
bambini condannati alla solitudine forzata.
Forse non lo sarà, perché 54
senatori chiedono oggi che quegli orfanotrofi rimangano aperti «per dare»
parole esatte «agli istituti di assistenza pubblici e privati la
possibilità di continuare nell'opera educativa intrapresa». Dunque
orfanotrofio uguale famiglia. Dunque figli di nessuno all'infinito. Questo
è l'obiettivo e l'ideale di tanto progetto. Ma non basta.
Parliamo di numeri. I dati più «freschi» risalgono a due
indagini. La prima, del '98, firmata dall'Istituto degli
Innocenti di Firenze-Centro nazionale (ministero del Welfare), dava 14.949
minori (di cui 1.174 portatori di handicap) ricoverati in 1.802 strutture.
Soltanto un anno dopo però, secondo l'Istat, gli stessi figli senza
famiglia erano diventati 28.148. Dato ufficiale ancora oggi (vedere
riquadri a pagina 132). Dov'è la verità? A chi dare credito? La tentazione
sarebbe rispondere: a nessuno. Inutile girarci intorno: oggi in Italia non
si può sapere veramente quanti bambini sono ospitati, ingoiati, nascosti
negli istituti.
Una verità non proprio contestata dagli autori
delle suddette inchieste: «Niente da dire, la nostra indagine
aveva grandi limiti. Ma chi può muoversi esattamente dentro una
situazione così magmatica?»: Lucia Nencioni, responsabile della
comunicazione dell'Istituto degli Innocenti, almeno è sincera. Di più.
«Diciamolo una buona volta, l'Italia ha negli istituti turnover infiniti:
strutture che cambiano nome e non si trovano più, altre che vengono usate
prima di essere censite, altre ancora che spariscono.
Dall'altra parte
l'informatizzazione del tribunale dei minori sembra fatta con la penna
d'oca». Da restare senza parole. Ma Lucia non ha ancora finito. «Ah,
dimenticavo: le regioni non hanno minimamente il polso della situazione».
Ci sarebbe il raro caso della Regione Piemonte che ha lanciato da poco
un'idea e un progetto: «Tutti i minori hanno diritto a una famiglia».
Potrebbe essere, ma non è, l'esempio per creare le anagrafi
regionali per monitorare i bambini chiusi in istituto. Del resto molto di
quello che riguarda l'adozione è fatto di «potrebbe».
Ne sa
qualcosa il bambino Carlo N., che arriva due anni fa in un istituto della
Campania. La madre è morta, il padre non può occuparsene. «Ma niente
adozione: lui è sangue del mio sangue» dice il papà, rispettando un
copione molto recitato in questi casi dai genitori, che poi spariscono
regolarmente per anni. Carlo si ammala, diventa anoressico: non vuole
mangiare, solo com'è.
Il padre viene avvertito: «Niente adozione»
ribadisce. Carlo ha 4 anni, pesa 8 chili, può morire da un momento
all'altro. Forse è già morto.
Chi ha indagato sulla famiglia
di questo piccolo disperato? Chi ha cercato di capire se non esistevano le
condizioni per dargli una mano, per trovargli un nuovo padre o una madre?
Forse nessuno. Quanti figli soli come Carlo rimangono piccoli
fantasmi dimenticati dentro i castelli cattivi dell'adozione? Certo
intorno agli istituti e alle adozioni non è tutto nero.
Ci sono anche
angeli: suore, suorine, operatori sociali, giudici, assistenti, volontari,
che lottano per i bambini da sempre. Ma che oggi sono indiavolati.
«È
davvero una vergogna. Non si può credere. Parliamo anche dei bambini che
vengono abbandonati in strutture fantasma per la seconda volta dopo
adozioni fallite. Lo sa che i ripudiati dell'adozione sono almeno 100
all'anno? E quando i genitori adottivi vogliono sbarazzarsene finiscono in
collegi, istituti privati e altro.
Nessuno impedisce oggi di
dare tuo figlio a un convitto o qualcos'altro di simile pagando una retta.
Ma nello stesso tempo chi sorveglia la sorte dei figli dopo
l'adozione?». Marco Griffini, anima e motore dell'Aibi
(Associazione italiana amici dei bambini), è veramente furioso.
Nessuno
più di lui sa toccare i peccati dell'adozione nazionale. «Oggi, con la
legge 149 che ha allungato il termine d'età degli adottanti, ci capitano
spesso coppie di cinquant'anni che adotterebbero un bambino grande, forse
anche handicappato.
Ma se loro abitano a Como e il bambino è a
Bolzano, come farli incontrare senza banca dati?». La signora Daniela
Intravaglia, responsabile per il ministero di Grazia e giustizia del
progetto di informatizzazione dell'apparato della giustizia minorile,
arriva da un congresso e parte per Perugia, ma dice di non doversi
difendere da niente.
Perché sta lavorando proprio sodo. «Del resto si
è cominciato a parlare di informatizzazione negli apparati istituzionali
non più tardi di dieci anni fa». Ecco dieci anni. Perché i bambini
abbandonati per ultimi? «Ma chi lo dice? Abbiamo già informatizzato ben
sei tribunali dei minori, mancano ancora Firenze, Sassari e Ancona. Il
progetto è stato del resto un grande investimento per il governo».
Si rende conto, signora, che senza banca dati molti bambini
rimangono irrintracciabili, eterni abbandonati? Intravaglia diventa
evasiva. «Di questo, mi dispiace, è meglio che lei parli con la
mia superiore». Un'ultima informazione: quando sarà pronta la banca dati?
«Tra un anno, forse».
Quanti bambini come Carlo
potranno o dovranno aspettare un anno? «Troppi» risponde Frida Tomizzo,
combattente indomabile dell'Anfaa (Associazione delle famiglie affidatarie
italiane). «La nostra è una situazione così assurda da diventare surreale.
Ma se dopo le indagini dovute e non concesse si decidesse che un bimbo
non può essere adottato, rimarrebbe sempre l'affido. Uno dei valori della
149 era, appunto, la riconversione degli istituti in case-famiglia.
Attenzione, però: è inutile che si faccia finta di riconvertire gli
orfanotrofi e poi ritroviamo nello stesso stabile 5 case-famiglia con 40
bambini.
Inutile affidare i piccoli a chiunque passi per strada che ha
bisogno di lavorare. Ci vuole personale idoneo e non più di 8 bambini in
una casa dove siano presenti un papà e una mamma di riferimento veri».
Basta scendere nel Sud d'Italia per capire quanto Frida ha
ragione. Un esempio per tutti: la Calabria, una regione con più di un
record nero. «Le riconversioni? Recite. Alcuni ci provano, certo,
altri fanno finta. La verità è che le nostre rette negli istituti sono le
più basse d'Italia: 10 euro a bambino. Nemmeno il pane, signora. Ma chi
riconverte adesso avrà sui 20 euro. E tutto è spiegato»: Simona Mordà,
volontaria e operatrice sociale, non ha più voglia di stare zitta.
«E
poi sui bambini senza famiglia la regione è cieca. Anche il volontariato.
Si aiutano i vecchi, si creano parchi giochi per i figli che ne hanno già
e quando si chiede aiuto per gli istituti la risposta è sempre la stessa:
non è il nostro mestiere».
Nel Sud, dall'Ottocento gli
orfanotrofi e gli orfani sono stati consegnati nelle mani spesso generose
di piccole donne della Chiesa. Che si prodigano, che vivono per
questo. Ma spesso ci muoiono anche dentro. Suor Silvia, di una piccola
comunità di Reggio, parla con un filo di voce. Di bambini adottabili lei
oggi ne ha solo quattro. Si capisce che sono come i suoi figli.
«È
difficile. Li abbandonano e poi se li dimenticano. Noi abbiamo una
'bambina' che oggi ha 19 anni. Non ha mai trovato una nuova famiglia,
speriamo che trovi un bravo ragazzo che le restituisca l'amore che non ha
mai avuto». Non riesco a capire se la bambina di 19 anni di cui parla suor
Silvia ha un handicap, se è stata rifiutata. Sento solo che questa suora
ha avuto una figlia vera. Che può essere per tutti i suoi bambini una
madre coraggiosa.
Come Giulia Basano. «Volevo adottare un
bambino. Aprirgli le porte della vita. Poi in quell'istituto ho visto
Nicola. Aveva 4 anni, era affondato dentro il suo mondo di
disperazione. I medici dicevano di tutto: prepsicosi, autismo, cerebroleso. Ho capito che ce la dovevo fare.
L'ho visto affiorare fin
dal primo giorno dalla morte. Ho seguito il suo risveglio. Ho capito che
era salvo quando ha cominciato a chiamarmi Giulia. Per lui mamma era un
nome che l'aveva troppo tradito. È stato come vederlo nascere di nuovo».
Oggi Nicola ha trent'anni. Ha un lavoro, una vita e un amore.
La sua storia e l'amore di sua madre stanno dentro un libro intitolato
Nicola, un'adozione coraggiosa. Ma se Nicola non avesse
incontrato una mamma come Giulia? Sarebbe rimasto di certo dentro quegli
educativi istituti che oggi questi 54 senatori vogliono ancora aperti
contro la legge 149. Da dove arrivano la cecità, l'assurdità, la
sfrontatezza di questo provvedimento che vuole figli di nessuno
all'infinito? Come si può paragonare la famiglia affidataria a un
orfanotrofio? Come si può parlare di educazione senza parlare di amore?
Livia Pomodoro, presidente del Tribunale dei minori, vede una
terza via e lascia capire una speranza: «È che quando si parla di istituti
si allude ai vecchi brefotrofi lager. Sono quelli che devono sparire o
almeno migliorare. Auspico vere case-famiglie, come quelle di don Mario
Inzoli, dove una madre possa andare a trovare il figlio senza vivere
tensioni con la madre affidataria. Dove un bambino possa sperare ancora di
ricongiungersi alla sua famiglia».