Sandhja, adottata a due anni dal sud
dell'India, le maestre di terza elementare hanno affiancato un
mediatore sik, di tutt'altra regione, lingua e cultura. A James, adottato dal
Brasile, la supplente
ha chiesto: «Raccontaci cosa si mangia al tuo paese». Lui è scoppiato in
lacrime, non ricordava
nulla, e per la prima volta si è sentito uno straniero. Ordinarie gaffe degli
insegnanti di fronte a
bambini particolari, che fanno i conti con una complessa storia personale e
intanto devono imparare
che sono italiani e uguali agli altri. In materia di adozione, nazionale o
internazionale che sia, la
scuola prende insufficiente dallo stesso ministero dell'Istruzione, che ha
appena tenuto a Torino un
seminario per incoraggiare docenti elementari a conoscere meglio questi allievi
speciali.
Gli errori più frequenti? «Considerare l'adozione una patologia, relegando il
bambino nella categoria
dei minori a rischio» osserva Marilena Piazzoni, responsabile delle adozioni
internazionali per la
Comunità di Sant'Egidio. «Ho visto alunni senza difficoltà di apprendimento
mandati dallo psicologo
solo perché adottati. E per chi è arrivato da grandicello c'è lo scoglio della
lingua: in tutta
Europa le scuole organizzano corsi a parte per loro; in Italia è un compito a
carico delle Famiglie».
Difficile, poi, valorizzare nel modo giusto l'identità etnica: con i bambini
dell'Est, perché loro
stessi si mimetizzano sotto tratti somatici europei; con gli altri, perché la
pelle scura rischia di
suscitare nei compagni frasi razziste. «La diversità non va ignorata, ma
trattata con lavori di
gruppo sulla geografia e le tradizioni culturali» spiega Marco Chistolini,
psicologo
dell'associazione Ciai. Nel suo libro Scuola e adozione, che esce in questi
giorni per Franco Angeli,
tratta il momento scolastico che più mette in crisi il bambino adottivo: quando
la maestra, per
introdurre il concetto di tempo e lo studio della storia, chiede le foto da
neonati, a volte perfino
l'ecografia. «Basterebbe lasciarli liberi di presentare i loro ricordi
preferiti: i figli adottivi
porteranno un giocattolo, i biglietti aerei, oggetti significativi del primo
incontro con i genitori.
Un altro metodo è riflettere in classe sul fatto che buoni genitori si diventa».
Chistolini suggerisce di partire da Cenerentola e Hansel e Gretel, ma
sconsiglia, per esempio, fiabe
come La gabbianella e il gatto in cui viene rimarcato il prevalere
dell'appartenenza biologica.
È però vero che, in media, i figli adottivi a scuola rendono meno degli altri:
«Anche se arrivati da
piccoli, hanno un vissuto di abbandono che interferisce con l'attenzione»
chiarisce lo psicologo.
«Chi ha subito un trauma sta in allerta, fatica a stabilire connessioni, a
provare curiosità.
L'insegnante deve approfondire queste difficoltà, per distinguere l'aspetto
psicologico da un reale
disturbo d'apprendimento». Che la scuola sia ferma a un'idea superata di
famiglia "tradizionale", lo
confermano i diretti interessati: «C'è poca attenzione al linguaggio: oggi in
classe si parla di
adottare cani e monumenti, come deve sentirsi un figlio adottivo?» nota Emilia
de Rienzo, insegnante
alle medie,consulente dell'associazione Anfaa e autrice del libro Star bene a
scuola si può?, appena
pubblicato da Utet. «Si lavora troppo sull'intelligenza e poco suil'emotività
dei ragazzi».
Lo
sottolinea anche Patrizia Quartieri, maestra elementare e due volte madre
adottiva: «La foga del
programma ci impedisce di seguire i tempi di ogni bambino. Che non significa
tracciare percorsi agevolati per l'allievo adottato, si sentirebbe commiserato. Vuoi dire ascoltarlo,
rallentare un po'. E
placare l'ansia da prestazione di tanti genitori adottivi, che vivono l'ingresso
a scuoia dei figli
come un esame su se stessi». Quando il bambino si sente accettato, arriva a
raccontare da solo la
sua storia. Come un piccolo cambogiano, al compagno che gli chiedeva perché sua
madre non avesse
gli occhi a mandorla: «I bambini nascono o dalla pancia o dall'aereo» gli ha
risposto, tranquillo,
«io sono nato dall'aereo».
a cura
di Emanuela Zuccalà