Adozione: i bambini restituiti |
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PERCHE' SEMPRE PIU' BAMBINI ADOTTATI VENGONO RESTITUITI
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Estratto da 'Donna Moderna' |
Settembre 2003 |
Sono cresciuti in orfanotrofio. E,
quando arrivano nella nuova famiglia, buttano fuori tutta la loro paura e
disperazione. Si ribellano, magari tirano calci. Sono questi i ragazzini
che tornano in istituto. Quelli che infrangono i sogni di mamma e papà. E vengono abbandonati due volte.
Restituiti al mittente, come un apparecchio difettoso che non corrisponde
alle aspettative. Abbandonati due volte: prima dalla famiglia naturale,
poi dalla famiglia che li ha accolti. E' il destino di tanti bambini
italiani e stranieri che vengono riportati in comunità perché i genitori
adottivi non ce la fanno più e gettano la spugna. Storie avvolte nel
silenzio che sporcano l'immagine idilliaca dell'adozione.
" Molti
genitori sono impreparati a un'impresa così difficile" denuncia Livia
Pomodoro, presidente del tribunale dei minorenni di Milano. "Scelgono
l'adozione come rimedio a un figlio mai nato, dopo infiniti tentativi di
inseminazione artificiale. E quando il piccolo finalmente arriva a casa,
invece di comprendere i suoi bisogni, tentano di far coincidere i loro
sogni con quella personcina fragile, che ha alle spalle un passato
drammatico in orfanotrofio".
Ma
quanti sono i bambini restituiti? Statistiche ufficiali non esistono.
Quest'anno, però, la Commissione per le adozioni internazionali ha svolto
un'approfondita indagine. I dati si conosceranno a fine dicembre, ma già
in passato Francesco Viero, neuropsichiatra infantile, autore con la
psicologa Jolanda Galli di un libro choc, Fallimenti adottivi, ha avanzato
qualche stima: " Secondo le cifre disponibili " ha scritto " i bambini
restituiti sarebbero tra l'1 e l'1,8 per cento degli adottati. Da
un'indagine più approfondita, svolta su 45 strutture residenziali per i
minori della Regione Veneto, è emerso un fenomeno più inquietante. Nei
primi 10 mesi del 2000, le comunità hanno ospitato 425 bambini. Di questi
ben 52, pari al 12,3 per cento, provenivano da esperienze di fallimento
adottivo. Lo stesso risultato è emerso da una nostra indagine su 10 case
famiglia a Napoli. Tra i 69 ragazzini accolti, 8, cioè l'11,5 per cento,
erano al loro secondo abbandono".
Presi per colmare un vuoto.
Ma come può un adulto commettere un errore così disumano, tentare di fare
il genitore e poi tirarsi indietro? La verità è che lo spirito
dell'adozione è profondamente cambiato. Vent'anni fa chi adottava lo
faceva pensando di dare un futuro a un bambino. Erano famiglie con nobili
ideali, spesso già con figli propri. Ora i genitori cercano un bimbo che
li risarcisca del dolore per la propria sterilità. E invece, si trovano
davanti a bambini già grandi, che hanno vissuto a lungo con genitori
violenti e poi in orfanotrofi dove hanno sofferto denutrizione e mancanza
d'affetto. " Inutile illudersi: i neonati e i piccoli vengono dati alle
coppie locali " spiega Pierangela Peila Castellani, responsabile del
Servizio di psicologia di una Asl piemontese, che valuta le aspiranti
coppie adottive. " E anche i bambini italiani hanno un curriculum simile:
una madre che li ha abbandonati e ripresi di continuo dall'orfanotrofio".
A parte i dati essenziali, del loro passato si sa pochissimo. Soprattutto
di quello dei piccoli stranieri. La loro storia è condensata in una breve
scheda stilata dal Tribunale del Paese di provenienza. Racconta se il
ragazzino ha un padre manesco, una madre alcolista, quanto tempo ha
trascorso in un istituto. ma non dice nulla di come il bambino ha
elaborato tutto questo. " E' realistico attendersi che il piccolo porti
quest' immenso dolore anche dentro la nuova famiglia" dice Pomodoro. " La
biografia interiore emerge col passare del tempo, a mano a mano che il
piccolo acquista fiducia nella nuova famiglia e decide di aprire il
proprio cuore". Non sempre la confessione viene ben accolta. Come nel caso
di una bambina undicenne di Bahia, adottata da una coppia di professori.
Dopo un anno di convivenza, la ragazzina si era attaccata molto alla nuova
mamma e aveva deciso di parlarle degli abusi sessuali subiti dal padre
naturale. La madre ne è stata sconvolta. Ha cominciato a spiarla dal buco
della serratura per studiare i suoi comportamenti. La violenza subita
dalla figlia è diventata per lei un'ossessione. " Così è venuta da me a
piangere" ricorda Melita Cavallo, presidente della Commissione per le
adozioni internazionali. " Sa, io ho una certa educazione, non riesco ad
accettarlo" mi ha detto ". Pochi mesi dopo la bambina è stata restituita.
Abbandonata una seconda volta, proprio dalla donna cui aveva accordato
fiducia, tanto da raccontarle un dramma profondo e devastante. Per fortuna
ha trovato una nuova famiglia con due fratelli brasiliani.
La
ricerca del figlio perfetto.
E' stata fortunata, la piccola di Bahia. La maggior parte dei ragazzini
restituiti, ormai cittadini italiani, finisce nei nostri istituti, o
meglio nelle comunità ( come si chiamano oggi le nuove strutture ) più
umane e con meno bambini. E lì resta fino a 18 anni. " Il secondo
abbandono li devasta, molti diventano autolesionisti o precipitano nella
droga " spiega Viero che, come neuropsichiatra, cerca di rimettere assieme
i pezzi della loro vita frantumata. La dinamica del rifiuto è sempre a
stessa. Per molte coppie, il figlio adottivo deve essere perfetto: andare
bene a scuola, essere affettuoso, riempire di allegria la casa. Se
tradisce i desideri, i genitori non sopportano più la sua presenza. La
storia di Mario, bambino ucraino, ribattezzato a 5 anni con un nome
italiano, è esemplare. Dopo pochi giorni dal suo arrivo, la madre,
professoressa d'italiano, si è messa a insegnargli la lingua con severità.
Per Mario è stato come tornare al regime dell'orfanotrofio, dove gli
adulti non facevano che pretendere qualcosa da lui. Risultato: si è chiuso
in se stesso e ha rifiutato di imparare l'italiano. La mamma adottiva si è
impuntata e ne è seguito uno scontro dopo l'altro, con ceffoni e
punizioni. Fino a quando il piccolo Mario è stato riportato indietro.
Cos'è andato storto?
Le
sfide che logorano.
" Già
cambiare nome al bambino è stato un modo di negare la sua identità" spiga
Viero. " Spesso, poi, i genitori adottivi hanno fretta che tutto funzioni
alla perfezione, spediscono i bambini a scuola qualche settimana dopo il
loro arrivo in Italia. Li sottopongono subito a esami e stress, mentre
avrebbero bisogno di una lunga pausa di adattamento e di un'infinità di
coccole. I piccoli debbono imparare a fidarsi della nuova famiglia, fare
pace con le proprie ansie di abbandono". " E' un processo lento e
difficile" racconta Donatella Ceralli, madre adottiva del Ciai ( Centro
italiano aiuti all'infanzia ) . " Questi bambini mettono a dura prova i
genitori: mollano calci, provocano, scappano di casa. Vogliono misurare il
grado d'affetto di mamma e papà, essere certi che, per quanto cattivi, non
verranno abbandonati mai più. Commettono piccoli furti che vivono come
risarcimento del rapimento di cui si sentono vittime: all'inizio la loro
percezione è quella di essere stati rubati alla famiglia naturale. A
scuola, poi, non sono certo i primi della classe, la sfiducia in se stessi
li frena in tutto". Ma allora quale genitore è in grado di affrontare una
strada così impervia? La storia di Manuel, colombiano di 5 anni e mezzo, e
della sua coraggiosa famiglia adottiva, dimostra che anche persone
semplici ce la possono fare. " Di Manuel sapevamo poco e niente" racconta
il padre, Luca L., libero professionista di Bergamo. " Se non che la madre
l'aveva abbandonato più volte a un'associazione per il recupero dei
bambini di strada. L'ultima volta, gli ha detto che doveva andare al bagno
e non è tornata mai più. Così adesso Manuel ci insegue ovunque, di stanza
in stanza, soprattutto in bagno, nel terrore di vederci scomparire. Quando
siamo andati a prenderlo in Colombia, era stato dato in affido a una donna
che lo aveva convinto di essere la sua vera mamma. Separarlo da lei è
stato uno strazio. Per tutta la nostra permanenza a Bogotà, Manuel ha
dormito per terra davanti alla porta di casa, sperando che lei tornasse a
prenderlo. Non solo. Ha distrutto tutto quello che gli capitava a tiro:
televisore, lampadari, tende, piatti. Eppure non è scappato. In fondo
aveva capito che eravamo la sua salvezza. Ancora adesso dobbiamo accettare
le sue durezze, gli atti di autolesionismo, i morsi e i pugni in faccia.
Vuol vedere se molliamo. Ma noi non ci pensiamo neppure."
Il
linguaggio dell'amore.
I
genitori adottivi di Manuel non sono eroi, si stanno facendo aiutare da un
psicologo dell'Aibi ( Associazione amici dei bambini ) e da uno
psichiatra. Ma è anche chiaro che le parole di questo padre appartengono
al linguaggio dell'amore. E spesso, affinché un'adozione funzioni, deve
scattare un colpo di fulmine tra il piccolo e la coppia. Altrimenti, è
meglio rinunciare. Il bambino è quasi sempre pronto ad attaccarsi alla
nuova famiglia, le resistenze riguardano piuttosto gli adulti. E ci sono
aspiranti genitori che dovrebbero lasciar perdere. " Quelli rigidi,
monolitici, con un'idea precisa della famiglia e dell'educazione" spiega
Ceralli. " Al contrario, bisogna essere malleabili, per accogliere chi
distruggerà le tue certezze e a volte la tua calma".
Prepararsi al peggio.
Ma a chi
tocca verificare la stoffa della brava mamma e del bravo papà? La
responsabilità è degli operatori sociali delle équipe per le adozioni e
degli psicologi delle Asl che preparano la relazione per il giudice dei
minorenni. Dal momento in cui una coppia presenta la domanda d'adozione,
deve affrontare una serie di colloqui. Gli operatori cercano di misurare
la capacità di tenuta psicologica dei partner, l'autenticità del desiderio
di adottare. " Una volta che il giudice ha dichiarato idonea la famiglia
intervengono gli enti come il nostro" spiega Irene Bertuzzi, responsabile
adozioni internazionali dell'Aibi" che seguono concretamente la coppia.
Teniamo corsi sul "mestiere" di genitori adottivo e seminari sul Paese
d'origine del bambino. Poi con l'aiuto di uno psicologo, si legge la
scheda del piccolo e si cerca di capire qual'è il modo migliore di
accoglierlo". Fondamentale è anche l'aiuto nei mesi e negli anni
successivi. " Ormai in diverse città d'Italia esistono gruppi di genitori
adottivi seguiti da un operatore sociale" dice Anna Maria Colella,
direttore dell'Agenzia per le adozioni internazionali della Regione
Piemonte, il primo ente pubblico in questo campo. " Stare assieme li aiuta
a confrontarsi e a superare le difficoltà".
Bambini difficili e
famiglie chiuse nel proprio narcisismo sono solo una faccia della
medaglia. Esistono anche adozioni impossibili. Lo sostiene Gilda Biffa,
responsabile del Centro San Domenico Savio di Napoli, una comunità per
bambini abbandonati. " Ci sono ragazzini con un passato così difficile che
rifiutano di mettersi in gioco con un'altra famiglia. In quel caso è
meglio la comunità dove sono seguiti da équipe di psicologi, oppure una
famiglia affidataria". L'assessore alle Politiche Sociali della Regione
Piemonte, Mariangela Cotto, però propone una strada diversa. " I bambini
difficili" dice " potrebbero essere accolti da famiglie con una
professionalità adeguata: psicologi, insegnanti, psicopedagogisti. Noi ci
stiamo già provando".
Il coraggio di tenere
duro. Anna
T., casalinga di Bergamo, non possiede diplomi speciali, però Marco l'ha
accolto lo stesso. " E' stato il primo di quattro bambini che abbiamo
adottato in Brasile" racconta. " Aveva 5 giorni, ora ha 17 anni. Già
all'asilo abbiamo capito che aveva problemi gravi, fino a quando è
arrivata la diagnosi: disturbo ereditario della personalità. Marco non
sopportava le regole, trattava male i maestri, disturbava in classe, era
aggressivo contro gli altri e se stesso. Prima di andare in una comunità
per ragazzi come lui, metteva assieme anche tre incidenti alla settimana
in motorino: del resto ignora cosa sia la velocità o un semaforo". E
adesso? " Sono passati 15 mesi da quando è entrato in comunità. Ha fatto
progressi enormi" dice Anna. " Siamo fieri di lui. Forse, alla fine, sarà
il figlio adottivo che ci avrà dato maggiori soddisfazioni, il più debole
e il più amato". Passerà il resto della vita in comunità? " Il nostro
Marco?" s'indigna la madre. " Appena avrà finito la sua esperienza in
comunità tornerà da noi, a casa".
(Articolo di
Antonella Trentin - tratto da Donna Moderna di Settembre 2003)
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